di Alina Bronsky (traduzione Monica Pesetti) ed. e/o
La protagonista di questo romanzo ben scritto, Rosalinda, racconta la sua vita e quella della sua famiglia: lei è di origini tatare, anche se è cresciuta in orfanotrofio secondo un’educazione rigidamente russa, per cui delle tradizioni del suo popolo ricorda ben poco. È orgogliosa, spietatamente convinta di sé e giudica il resto del mondo, compreso il marito e la povera figlia Sulfia, come una massa di incapaci e buoni a nulla. L’unica persona che riesce a considerare positivamente è la nipote Aminat, cui comunque non risparmierà sofferenze e angosce.
Un personaggio apparentemente sgradevole e malvagio che però, vuoi per il racconto in prima persona che rende, tutto sommato, corretta la sua ottica, vuoi perché in fondo ci insegna ad essere un po’ egoisti, non dispiace affatto. La cucina è un filo che si svela di tanto in tanto e ricorre in molti momenti cruciali del libro: Rosalinda, manco a dirlo, è una cuoca perfetta. Riesce, con i pochi viveri reperibili in epoca sovietica, a mettere insieme ottimi pasti e indimenticabile è il rapporto materno che ha con il suo kombucha (una sorta di tè fermentato russo), prodotto in casa e amato più della stessa figlia.
Non si tratta di un libro di ricette, non descrive la cucina russa regionale e, in fondo, di cucina in senso stretto non si parla quasi. Ma allora cosa significa questo titolo? Si può pensare che il piccante stia tutto in Rosalinda, orgogliosamente tatara, sicura di sé stessa, del suo aspetto e delle sue potenzialità come nessun altro riuscirebbe ad essere.