Immaginate di andare a cena insieme a 20 persone, in un luogo che non avete mai visto e con gente che non conoscete, come se andaste alla festa di qualcuno che non conoscete direttamente. La prima cosa che vi verrà in mente è: speriamo che ci sia gente divertente. La seconda è: e che si mangi bene. Se invece andate da Postrivoro, la prima cosa che vi verrà in mente è: ma che nome è Postrivoro!? E vi sentirete rispondere da Enrico Vignoli: “Mah, alla fine diciamoci la verità, se chiudi gli occhi e senti la parola Postrivoro non ti viene in mente un mostro da bestiario medievale? Questa riflessione nacque con Ilaria e Andrea quando inziarono a lavorare al nostro logo e alla nostra grafica. E trovo che rappresenti perfettamente la realtà dell’evento, antropofago e mutevole.”
Ecco, Postrivoro è un evento gastronomico che si svolge a Faenza. Anzi, a dirla tutta è un evento per “gastro-pellegrini” che hanno voglia di una cena gourmet, servita in una location ogni volta diversa nel design, e con una futura stella della cucina italiana ogni volta diversa che cucinerà per voi. Uno showcooking per pochi ma curiosi foodies, ideato da Enrico Vignoli, assistente di Massimo Bottura, insieme ad altri nove amici tutti provenienti dal mondo della gastronomia, tra questi anche Yoji Tokuyoshi chef di cucina dell’Osteria Francescana e Enrico Caldesi di Fenice Catering. “Il significato di Postrivoro, al di là della circostanza specifica in cui nacque il nome – precisa Enrico – ha le sue radici nella parola Postribolo ovviamente, di cui tutti abbiamo un immaginario, legato al luogo di perdizione e di soddisfazione della passione. Sostituendo al finale di parola il suffisso voro che indica il nutrirsi, viene fuori Postrivoro. Quello che ci accomuna è un’enorme passione per la gastronomia e i rapporti umani intensi e unici che abbiamo intrecciato.
Il Postrivoro racconta le nostre storie, che piangano o che ridano, sono sempre diverse e si evolvono”. La cena e il pranzo si svolgono nell’arco di un weekend, e occorre essere invitati direttamente dagli stessi associati. I protagonisti del Postrivoro del 2 e 3 Febbraio saranno Giuseppe di Martino, giovane sous chef della Torre del Saracino di Gennaro Esposito, e il wine writer indipendente Francesco Falcone, che firma anche la Guida I vini d’Italia de L’Espresso.
Questa volta Postrivoro, vi aspetta sabato 2 febbraio al Rione Bianco del Chiostro della Commenda in piazza Frà Sabba 5. È possibile prenotare solo online sul loro sito www.postrivoro.it
Intervista a Massimo Bottura
Come si fa a diventare bravi e di successo come Massimo Bottura? Come si fa a rientrare nelle prime cinque posizioni della World’s 50 Best Restaurants, a rimanere il migliore chef italiano per tre guide su tre (Michelin-Gambero Rosso-L’Espresso), a servire una cena per 400 ospiti di diverse nazioni alla guida di una equipe di 50 cuochi e 80 camerieri in occasione del decennale dell’11 settembre al Central Park di New York, come si fa? Chissà quanti giovani talenti in cucina se lo saranno chiesto. La risposta dello chef è di una semplicità disarmante: lavoro, umiltà ed energia. Poi certo, mettici pure un pizzico di talento, giusto l’ingrediente più raro che fa la differenza.
Avere dei buoni maestri è fondamentale, ma per diventare il migliore chef al mondo qual è il “segreto”?
Prima di tutto l’umiltà. Una parte di talento. Tanta energia, spirito di sacrificio. Duro lavoro giorno dopo giorno senza mai perdersi nella quotidianità.
Rimanendo sempre con i piedi per terra e viaggiare, per una saggia contaminazione, una contaminazione che sia confronto, un’apertura.
I giovani sono il futuro, bisogna metterli in condizione di studiare, non devono entrare subito in cucina, devono studiare il più a lungo possibile. E all’alberghiero devono andarci non per imposizione, ripiego o peggio ancora moda, ma per scelta. Solo se si ama studiare si può crescere, capire, approfondire gli interessi e trasformarli in passione ed entusiasmo. Solo in questo modo si potrà fare ricerca in cucina, ricerca sui prodotti o sulle tecniche senza inseguire le mode del momento.
C’è qualche chef che considera ancora il suo punto di riferimento imprescindibile sul lavoro?
I miei punti di riferimento sono i maestri che ho avuto.
Credo che essere cresciuto con l’idea che la cucina, o meglio la tavola, fosse il luogo d’incontro per la famiglia, sia stata una grande scuola. I pellegrinaggi dai grandi di allora, i Peppino Cantarelli, Gualtiero Marchesi, il San Domenico, mi hanno permesso di affinare il palato e capire che la cucina, sviluppata in quel modo, andava oltre.
Professionalmente la ormai famosissima ‘razdora’ di Campazzo, Lidia Cristoni, mi ha segnato l’anima. Lo scomparso Gorge Cogny mi ha dato professionalità e cuore. Ducasse e Adrià hanno portato pulizia mentale, rigore e rispetto.
La prima cosa che insegna ai suoi allievi, e la prima cosa che esige dai suoi allievi?
Umiltà e Rispetto per gli altri e per se stessi.
Da appassionato d’arte, per lei l’arte è: un modo di pensare, di vivere o di cucinare?
Credo che l’arte sia qualcosa di ben preciso che attiene ai più profondi bisogni umani e che costituisce il frutto di un complesso processo creativo. Io non mi ritengo un artista, e ci tengo a sottolineare questo principio, ma un artigiano capace di concettualizzare le proprie realizzazioni che nascono dall’incontro di idee, culture, tecniche e gesti. Ciò significa non caricare il nostro lavoro di eccessive aspettative, ma al tempo stesso riconoscere che non vi può essere ricerca in cucina senza la voglia di esplorare e percorrere nuove strade in un processo che può essere definito creativo: solo in questo senso si possono riconoscere delle analogie rispetto al lavoro di un architetto, un poeta o un musicista.
Man mano che ho imparato nuove tecniche, e ho imparato a conoscermi meglio, la mia cucina si è evoluta approfondendo i concetti e utilizzando spesso l’ironia per cercare di abbattere barriere e preconcetti. Il mondo della cucina sta cambiando: c’è stato un grande mutamento negli ultimi 10 anni, un’evoluzione verso un modello ricco di contaminazioni che lascia spazio di crescita ai giovani chef di tutto il mondo. Penso che sia un periodo molto interessante e stimolante per questo lavoro. I miei colleghi danesi, newyorkesi, parigini, italiani, sudafricani, australiani o tedeschi, stanno tutti reclamando un proprio spazio e una propria identità nel mondo della cucina spostando l’attenzione da una cucina istituzionale e pomposa a una cucina stagionale, fresca ed emozionale connessa al proprio territorio e alla propria anima.
La mia cucina è intimista, è una cucina in punta di piedi. Questa è la chiave per capire chi sono.
Se si sveglia di notte con un certo languorino, quale piatto si cucina?
Apro il frigo e scelgo qualcosa, perché a casa come al ristornate cerco sempre di avere prodotti di alta qualità che rispecchino i nostri artigiani.
Ad occhi chiusi, quale sapore e odore resta indelebile nella sua memoria?
Da bambino, mi nascondevo in cucina e, da sotto il tavolo, allungavo la mano e rubavo i tortellini perfettamente allineati sul tagliere.
È qui che è nata la mia passione per la cucina.
Se chiudo gli occhi sento ancora tutti i profumi della cucina di mia mamma e di mia nonna, il brodo, il parmigiano e il prosciutto crudo.
Un grande maestro come Gualtiero Marchesi, a un certo punto della sua carriera ha rinunciato a tutte le stelle Michelin, sostenendo che “la passione non deve essere subordinata ai voti”. Lei lo farebbe?
Marchesi ha scelto la negazione delle stelle come monito per le giovani generazioni, per evitare che finalizzino sforzi e sacrifici esclusivamente come raggiungimento dell’ambito premio: non si lavora per la stella, ma per se stessi, per la squadra e per il sogno. La stella non fa altro che dimostrare questo, è un riconoscimento al duro lavoro.
D’altra parte non si può prescindere dai giornalisti e dalla critica gastronomica, perché sono quelli che ci permettono di fare conoscere la nostra cucina e il nostro pensiero.
Parlando di letteratura, c’è qualche autore che le abbia mai ispirato un piatto?
Diversi.
Arte, letteratura e musica hanno sempre fatto parte della mia vita, sono la base del processo creativo dell’Osteria Francescana, recentemente è stato un libro di Gertrude Stein in cui cita l’episodio nel quale insieme a Picasso vide per la prima volta un autoarticolato camouflage per le strade di Parigi.
Se Picasso immagina il cubismo in un autoarticolato militare, come posso non immaginare una lepre nel bosco?
Cosa si auspica per il nuovo anno?
Mi hanno chiesto: “cosa c’è nel futuro di Massimo Bottura?”
Io ho risposto: ancora futuro.
Se ami la ricerca, la sfida, non puoi fermarti.
[Crediti immagine: ©Flickr / Bruno Cordioli]
I dolci delle feste: non solo panettone
Avessimo potuto fare un giro sulla slitta di Babbo Natale quest’anno, avremmo sicuramente fatto incetta di panettoni e vari dolci tipici per ogni casa visitata da nord a sud, rischiando di far collassare il nostro tasso glicemico. Non avendo renne e slitta a disposizione sotto casa, ci siamo fatti raccontare da alcuni chef e pasticcieri sparsi per l’Italia la ricetta del loro dolce natalizio preferito.
Alessandra Moschettini (Alex, Lecce)
A Natale qui a Lecce non si può fare a meno dei “porceddhuzzi” e della pasta di mandorle. I primi sono simili agli struffoli napoletani, ovvero delle palline di semola impastata con olio, arancia ed un liquore secco, che poi vengono fritte, affogate nel miele e presentate come una montagnola decorate con scaglie di cioccolato, confettini colorati e mandorle. Decisamente ipercalorico! La pasta di mandorle leccese è deliziosa, meno dolce di quella siciliana, e a Natale viene presentata sotto forma di pesce colorato farcito con cotognata o perata e cioccolato fondente. Il panettone invece qui da noi è presente soltanto come prodotto già pronto, anche se alcune pasticcerie da qualche anno propongono quello artigianale. La mia proposta per il panettone è di farcirlo con un “tiramisù” all’arancia, bagnato con Grand Marnier o con una crema di charlotte al cioccolato.
Fabiana Gargioli (Armando al Pantheon, Roma)
Il dolce che prepara papà la vigilia di Natale è un panettone farcito. Nasce dal fatto che a me e alle mie sorelle, quando eravamo piccole, non ci piaceva molto il panettone e così papà per invogliarci a mangiarlo lo “vestiva a festa”.
Ricetta e ingredienti:
- Un Panettone classico
- Cioccolata Fondente
- 80 g di burro
- 7/8 Marron Glacés
- 125 g di mascarpone
- 6 uova
Preparazione:
Tagliare la calotta superiore del panettone, svuotarlo della mollica e lasciare un bordo di 1,5 cm. Squagliare il cioccolato a bagnomaria con il burro, poi unire il preparato con i marron glacé e la mollica del panettone che è stata messa da parte precedentemente. Preparare una crema con il mascarpone e le uova e dopo aver riposizionato la calotta superiore colarla sul panettone. Decorare con scaglie di cioccolato.
Franco Aliberti (chef patissier Osteria Francescana, Modena)
Uno dei miei dolci preferiti del periodo natalizio è sicuramente la focaccia con la glassa, molto simile al panettone ma con una percentuale di grasso inferiore. Adoro prepararlo, è come veder crescere un bambino, si parte da un lievito madre ottenuto da una fermentazione naturale di uva e da ingredienti che seleziono personalmente. Le farine sono macinate in un piccolo mulino delle marche; il miele di erica arriva direttamente dal Parco dell’Uccellina in maremma, non è molto dolce e ricorda il gusto del mou e della frutta cotta; il burro viene dalla Valle d’Aosta, lo aromatizzo un giorno prima della lavorazione con la cannella, la vaniglia in baccelli, l’anice, i chiodi di garofano e il cardamomo; come acqua scelgo la Lauretana, per la sua leggerezza e il suo ph basso, che deriva da una sorgente che si trova a 1050 metri di altezza; il sale è quello di Cervia; i canditi che preferisco sono di arancia e bergamotto e li prendo direttamente da Noto insieme alle mandorle, e per finire l’uvetta sultanina rigorosamente biologica. Come potete vedere sono materie prime ricercate nonostante possano sembrare ingredienti comuni per una pasticceria, e ognuna ha un ruolo ben preciso nell’impasto. La lavorazione è rigorosamente tradizionale, parliamo di 36 ore complessive, e prima della cottura metto sulla superficie la glassa, lo zucchero in granella e le mandorle. Il profumo che si sprigiona in tutta la pasticceria è irresistibile. È un dolce che ha una storia e un valore importante, non amo stravolgerlo. Tutto ciò che è tradizione deve rimanere come una grande finestra aperta per noi giovani, dobbiamo osservarlo con spirito critico e mai malinconico. Insieme a tutti gli artigiani che realizzano i mille ingredienti che usiamo otteniamo quei prodotti che tanti anni fa rendevano speciale il giorno di festa, e se riusciamo a migliorarli un giorno diventeremo anche noi parte della tradizione.
Domenico Penna (Gelateria Enrico, Pizzo Calabro)
Oltre al tartufo, la specialità di gelato che ha reso celebre Pizzo nel mondo, per il periodo natalizio produciamo altri due prodotti che non possono mancare sulla tavola per le ricorrenze: il Pangelato Enrico, un pandoro ripieno di gelato ai gusti nocciola e cioccolato, con copertura di cioccolato fondente, e il Tartufone gelato, ai gusti nocciola e gianduia al rum, con cioccolato fuso fondente e ricoperto da crema e granella di amaretto.
[Crediti immagine: ©Flickr / Nicola since 1972]
Gualtiero Marchesi, intervista al maestro
C’era una volta il mestiere del cuoco, che poi nel tempo è diventato quello che comunemente viene definito dello chef. Ma se la grande cucina italiana oggi vanta celebrità che arrivano direttamente sui nostri schermi, trasformando questo mestiere nella professione cult che conosciamo, lo dobbiamo anche a un grande maestro, pioniere dell’alta cucina italiana, come Gualtiero Marchesi. Il Marchesino, il suo ristorante milanese, come ogni anno, ha appena finito di deliziare gli ospiti presenti alla prima del Teatro alla Scala, con un menu che finiva con un bignè a forma di cigno, farcito di purea di castagne e panna montata su una salsa leggera di cioccolato, omaggio al cavaliere Lohengrin. E noi siamo andati a intervistarlo.
Dalla sua biografia emerge una personalità poliedrica. Amava la musica e ha sposato una concertista, ma nella vita è diventato un grande chef. Scelta “obbligata” vista la tradizione di famiglia o vocazione?
Non chef, che vuol dire solo capo, ma cuoco. Più bello, no?!
Potrei rispondere così: tradizione e vocazione si sono fuse insieme e sono diventate cultura.
È emigrato in Francia a 40 anni, negli anni della contestazione. Lei dice: «tornai a casa solo quando fui sicuro di aver imparato la semplicità»…
Imparai o meglio vidi cosa fosse la semplicità chez Troisgrois. Cosa vuol dire? Significa imparare come affrontare nella maniera giusta, con garbo, con grazia, il fuoco.
Secondo lei, questo è un mestiere che si può cominciare a fare bene anche quando non si è più giovani?
Da giovane sei più esplosivo, ma, passati i quaranta, capisci meglio cosa accade intorno e dentro di te. Non ho pregiudizi verso chi intraprende un nuovo mestiere da vecchio. Penso anzi che una maggiore tranquillità e umiltà non nuocciano affatto.
“La forma è materia”. Cosa intende?
Intendo dire che la materia è forma. Se ami la materia, svisceratamente, come il sottoscritto, sarà lei a suggerirti cosa fare per non snaturarla.
La prima cosa da imparare in cucina qual è?
L’umiltà. Osservare e imparare.
Quando ha iniziato questo mestiere, le sue aspirazioni, i suoi sogni, i suoi miti quali erano?
Misi da parte i facili sogni e decisi di tornare a studiare, constatando quanto ci fosse da imparare. Da allora, non ho più smesso.
Molti grandi chef di oggi sono stati suoi allievi. C’è qualcuno che secondo lei ha superato il maestro?
Per superarmi devono prima raggiungermi. Sono ancora in fuga.
La sua lezione più importante è stata rinunciare alle stelle Michelin, “la passione non deve essere subordinata ai voti”. Giusto, ma come si evitano poi le truffe ai turisti?
Ognuno dovrebbe farsi l’esame di coscienza. Detto questo, io sostengo la via giapponese, dove i cuochi si specializzano e puntano a far bene lo stesso menu per tutta la vita. Solo alcuni, oltre ad eccellere in vari campi, diventano maestri e allora si permettono di fare tutto.
Una domanda al Gualtiero Marchesi Rettore di Alma, la scuola internazionale di cucina italiana da lei fortemente voluta: quali caratteristiche deve avere un bravo chef per riuscire in questo mestiere?
Una volta rispondevo che occorrono la passione e l’intelligenza. Ora aggiungo anche l’amore, l’elemento fondamentale.
Un sapore che non ha più dimenticato, e il suo piatto preferito…
I miei sapori dell’infanzia sono quelli del minestrone mangiato nella scodella sull’uscio di casa, quando ero sfollato a San Zenone Po, il paese di Gianni Brera, o la cassouela di pollo con le verze. E sopra a tutti il sapore dell’acqua fresca di pozzo, pescata col ramaiolo dal secchio.
Oggi adoro gli spaghetti. Sono straordinari, appena tirati su e conditi con il minimo indispensabile.
[Crediti immagine: ©Flickr / Bruno Cordioli]
Intervista a Pina Amarelli
Se dici liquirizia dici Amarelli, un brand gastronomico che è diventato sinonimo di eccellenza in tutto il mondo in fatto di “radice dolce”. E per usare una definizione della stessa Pina Amarelli, tra la liquirizia calabrese e le altre “c’è la stessa differenza che passa tra un vino qualsiasi e lo Champagne”. Cavaliere del lavoro, accademica aggregata dell’Accademia dei Georgofili, membro del CdA della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, giornalista gastronomica del Gambero Rosso ai suoi albori, impegnata in politica nella prima giunta Bassolino, donna e imprenditrice di successo a tutto tondo, in una regione dove le imprese di successo si contano sulle dita di una mano. Incontro la raffinata signora della liquirizia nello studio di una società commerciale a Roma, dove mi riceve tra una riunione e l’altra. Mi scappa un colpo di tosse, e subito tira fuori dalla borsa uno dei suoi sassolini di liquirizia.
Radici calabresi che diventano storia ad opera di una napoletana. Come succede?
Intanto sono una delle poche emigrate in Calabria, anche se ho sempre mantenuto casa a Napoli. Ho scoperto la “calabresità” di mio marito andando in Calabria dopo il nostro matrimonio. Al mio arrivo, rimasi molto colpita dal senso d’immobilismo che vi si respirava. Io ero un avvocato e facevo anche l’assistente universitaria all’università di Napoli, e non avrei mai pensato nella mia vita di andare a fare l’imprenditrice in Calabria, anzi la mia idea era quella di fare il magistrato. Ma da quel momento cominciai a frequentare assiduamente la Calabria. Il mio impegno all’interno dell’azienda di famiglia cominciò un po’ per caso, quando mio suocero, un vecchio nobile calabrese, carismatico e visionario, decise di fare un grande investimento comprando nuove macchine per la produzione. Una trasformazione aziendale che terminò alla metà degli anni ’70 e alla quale seguì anche una rivoluzione nel marketing, quando proposi di adottare le famose scatole in metallo da collezione.
Quando Amarelli diventa sinonimo di liquirizia?
Negli anni novanta. Io dico sempre che ci vuole un colpo di fortuna nella vita, e occorre essere la persona giusta, nel posto giusto, al momento giusto. Quando morì mio suocero, essere donna in un posto come la Calabria poteva sembrare una cosa poco favorevole, e invece si rivelò la mia fortuna. Perché la stampa, con la quale avevo stabilito dei rapporti, cominciò ad interessarsi alla mia storia. Il secondo atto fu di affermarsi come leader mondiali nel campo della liquirizia. E la liquirizia calabrese è la migliore al mondo.
Dal punto di vista di un’imprenditrice di successo come lei, cosa serve alla Calabria per rinascere?
Secondo me, il nostro problema è che c’è ancora il mito della “bella giornata”. È un handicap tutto italiano quello di accontentarsi della bellezza delle nostre città, del sole, del clima meraviglioso. È questa la mentalità che dobbiamo cercare di cambiare, e penso che molte donne di questo paese abbiano tutte le carte in regola per farlo. Io sono convinta che si debba ripartire dalla cultura. Le nuove generazioni hanno tante possibilità che prima non c’erano, come l’università, che ha cambiato il volto della Calabria. Ci sono delle facoltà riconosciute a livello internazionale come centri di formazione di eccellenza, che sfornano intelligenze da impiegare nel nostro territorio.
È d’accordo con i finanziamenti privati alla cultura?
Se le risorse pubbliche non ci sono, piuttosto che mandare tutto in rovina è meglio far partecipare i privati al finanziamento.
Secondo lei è utile ritornare al lavoro artigianale e a quello agricolo riscoprendo le tradizioni?
Sì. Guarda Rosalba De Bonis, una ragazza erede di un’antica famiglia di liutai di Bisignano. L’azienda era in difficoltà, ma lei l’ha ripresa, facendo impresa e riuscendo a mantenere viva la lunga e nobile tradizione familiare. Riscoprire le tradizioni e la manualità è più che mai importante. La scomparsa del manifatturiero è alla base della crisi del nostro paese, perché purtroppo adesso produciamo solo in Cina e in India.
Ma da imprenditrice, come si resiste in Calabria?
Battendosi in ogni momento, perché è come se tutto ti remasse contro. La politica, apparentemente la devi rispettare perché è inutile fare le battaglie contro i mulini a vento, però poi non ti ci puoi immischiare. E quello che dovrebbe essere scontato non lo è, perché creare le condizioni per poter lavorare, e intendo le condizioni urbanistiche e le infrastrutture, è un dovere per chi amministra una regione, non una cortesia da chiedere.
Com’è entrata la politica nella sua vita?
Tanti anni fa, insieme a molte donne oggi impegnate attivamente nelle istituzioni, come Silvia Costa, cominciammo a creare delle sezioni femminili dentro i partiti. Quando cominciò la minaccia Berlusconi fondammo un’associazione, che raggruppava tutte le donne che ricoprivano ruoli istituzionali, e la chiamammo “Donne senza cavaliere”.
Una ricetta alla liquirizia?
La liquirizia ora è diventata un ingrediente molto usato anche nell’alta gastronomia. Noi produciamo dei buonissimi tagliolini alla liquirizia, e forse in pochi sanno che, per esempio, la liquirizia in polvere sta molto bene sui risotti. La mia ricetta quindi è: risotto ai gamberi e agrumi con una spolverata di liquirizia. Una delle nostre novità inoltre è il sale alla liquirizia, che si può combinare benissimo con un buon olio, un po’ di limoni, e ne viene fuori una citronette che ha un sapore simile a quello dell’aceto balsamico ma più leggero, che sta bene anche sul pesce.
Intervista a Cristina Nonino
La rivoluzione del coraggio quasi sempre si declina al femminile, come dimostra la storia della grappa Nonino. Distillatori dal 1897, di tutte e cinque le generazioni, quella rappresentata da Giannola e Benito ha segnato il punto di svolta decisivo per tutta la famiglia. Cristina, Antonella ed Elisabetta sono oggi le eredi di una antica tradizione che affonda le sue radici letteralmente nella cosa più nobile e duratura che ci sia: la terra. Una grappa famosa in tutto il mondo, con numerosi estimatori d’eccellenza, un premio letterario istituito nel 1975 che a giudicare dagli eventi sembra aver anticipato l’Accademia Svedese per ben quattro volte. L’ultimo premio Nobel Mo Yen, ha detto di loro: “Nel mio romanzo Il Sorgo rosso ho già raccontato di come mia nonna producesse il distillato di sorgo, e di come, terminata la produzione, quelle persone si mettessero a cantare a squarciagola una filastrocca che faceva più o meno così: se berrai il nostro distillato non ti verrà la tosse, se berrai il nostro distillato ti sentirai forte, se berrai il nostro distillato non avrai paura di niente. Se berrai il nostro distillato non ti inginocchierai neanche davanti all’imperatore… Anche quello era un distillato prodotto dalle donne per gli uomini”. Ne parliamo con Cristina Nonino.
Come tutto ha inizio?
La nostra storia nasce a fine ‘800, infatti quest’anno celebriamo i 115 anni di distillazione nella famiglia Nonino. Nasce perché il mio trisnonno Orazio, che era un contadino che insieme ad altri contadini lavorava la terra di un grande latifondista, aveva un unico grande privilegio rispetto ad altri suoi colleghi, quello di disporre di un piccolo alambicco su ruote proprie, con cui distillava le vinacce proprie e altrui, facendosi pagare col prodotto ottenuto. Non dobbiamo dimenticare che in passato i grandi proprietari terrieri avocavano a sé tutto il frutto del lavoro nei campi, l’unico frutto del lavoro che non veniva preteso dai proprietari terrieri era la vinaccia, perché veniva considerato prodotto di scarto. Ed è così che nasce la grappa, strettamente legata al mondo contadino. È l’unico frutto, l’unica fatica, di cui loro fossero totalmente proprietari. C’è un passo meraviglioso di Davide Maria Turoldo, in un bellissimo libro che s’intitola Mia infanzia d’oro, in cui ricordava la grappa nella sua infanzia :”era l’acqua di fuoco che ti bruciava la fame e che ti aiutava anche ad affrontare le fatiche del giorno”. Questa era la grappa del passato, una grappa che si otteneva mescolando le vinacce tutte assieme.
I miei genitori, innamorati perdutamente del loro lavoro, spinti dalla voglia di nobilitare questo prodotto raffinandolo, avviarono una serie di sperimentazioni che portarono il 1 dicembre 1973 alla nascita del monovitigno Nonino. L’idea di Giannola e Benito all’inizio venne considerata una follia per il mercato, tant’è che la prima produzione venne interamente regalata.
Qual è il metodo e quali le caratteristiche della vostra produzione?
Le distillerie Nonino imbottigliano esclusivamente Grappa ed Acquaviti distillate con metodo artigianale, nei propri alambicchi discontinui a vapore. Tradizione ed innovazione sono alla base del nostro sistema di produzione che può contare sull’utilizzo di 5 distillerie artigianali, una per ogni componente della Famiglia, composte ciascuna da 12 alambicchi. Lavorando nel periodo della vendemmia giorno e notte, sabato e domenica compresa, distilliamo le vinacce freschissime, fragranti, appena svinate, fermentate sottovuoto in purezza, grazie al sistema messo a punto da mio padre Benito. Portiamo così nel distillato i profumi ed i sapori del vitigno d’origine, ottenendo una qualità eccelsa.
Nel solco della tradizione, distillate solo in Friuli o ci sono altri centri di produzione Nonino?
Devo confessare che abbiamo ricevuto diverse proposte per realizzare una distilleria in Austria, in California, in Nuova Zelanda, dove ci avrebbero addirittura regalato il terreno, allettandoci con vantaggi fiscali e minor burocrazia, ma abbiamo sempre gentilmente declinato l’offerta. Noi siamo innamorati del nostro Paese, il Friuli è la nostra terra, è il posto dove affondano le nostre radici. Tuttavia l’arrivo delle nuove generazioni – abbiamo 8 nipoti – potrebbe offrire nuove opportunità, sempre però animate dal nostro credo: perseguire la massima qualità con il massimo rigore per soddisfare l’estimatore più esigente!
Come nasce il premio letterario Nonino?
La cosa pazzesca è che anche questo nasce non per un calcolo ma per passione. Nel 1973 i miei genitori, dopo aver realizzato la grappa di monovitigno Picolit, si rendono conto della straordinarietà di questa sperimentazione e decidono di proseguire sempre scegliendo vitigni autoctoni friulani. Realizzano che questi vitigni sono la migliore espressione della nostra viticoltura, ma che erano diventati fuorilegge dopo un censimento della CEE, che li aveva dimenticati e quindi non censiti, a causa della loro ridotta produzione. Da qui nasce l’idea di un premio Nonino tecnico, che pone l’attenzione su quest’aspetto della viticoltura, premiando tutti i produttori che contro la legge avessero avuto il coraggio di impiantare questi vitigni. Dopo soli tre anni, molti di questi vitigni tornarono ad essere riconosciuti e addirittura raccomandati. Il premio si trasforma così in poco tempo dapprima in premio giornalistico e poi in letterario. Un premio che è non solo istituito, ma finanziato e organizzato esclusivamente dalla mia famiglia. Quindi non ci sono interferenze di alcun genere, in più ha lo straordinario privilegio di una giuria internazionale meravigliosa, presieduta da Vidiadhur Surajprasad Naipur, premio Nobel 2001.
Se non avessi avuto questa grande tradizione alle spalle, con una figura materna così forte, come sarebbe stato fare l’imprenditrice nel tuo ambito lavorativo?
Indubbiamente l’esempio è stato determinante. L’impegno per noi è stata una naturale conseguenza. Ma credo che oggi come oggi, per una donna sia diventata un’esigenza riuscire ad esprimersi anche nel mondo del lavoro. Il passaggio dalla condizione rurale a quella industriale per certi aspetti ha molto aiutato, perché prima, quando si lavorava nell’ambito rurale, le donne lavoravano duramente, ma senza riconoscimenti in termini economici, poiché la figura femminile rimaneva relegata all’interno della famiglia. E la cosa più importante è che quando tu hai la consapevolezza di poter contribuire anche in termini economici all’andamento della tua famiglia, questo ti dà quella forza di rivendicare anche un certo peso sia nell’autodeterminazione verso te stessa che nella partecipazione alle scelte della famiglia.
Un secolo dopo, nel 1997, voi sorelle Nonino avviate una nuova società.
Ciascuna di noi ha ricevuto in dote tanti alambicchi, addirittura 12 alambicchi ciascuna, e tante barrique con delle grappe invecchiate. Pensa che abbiamo una cantina con più di 1750 barrique di legni diversi, questa è la nostra dote. E la nostra distilleria, nella quale siamo riuscite a riunire tutti questi alambicchi, è stata realizzata sul terreno dove il nostro trisnonno Orazio iniziò l’arte della distillazione. Pensa all’orgoglio che potrebbe provare nel vedere quello che siamo riuscite a fare. Abbiamo già realizzato un progetto per noi importante, che è il distillato di puro miele, che abbiamo voluto chiamare Gioiello. Il miele è un fortissimo antisettico, la grande difficoltà è stata quella di riuscire a fermentarlo, quindi di trasformare gli zuccheri in alcol e l’abbiamo realizzato sotto la guida indispensabile di nostro padre. Ad oggi siamo gli unici a distillare il miele in purezza. Il nostro prossimo progetto sarà quello di realizzare un centro studi della Grappa Nonino, in cui implementare tutte le conoscenze sulla distillazione e attraverso il quale far conoscere la grappa d’eccellenza.
Un ricordo d’infanzia che ti lega al tuo lavoro?
Sicuramente il profumo, io sono una patita dei profumi, e la cosa meravigliosa è che quando inizia la prima distillazione ogni volta è un momento magico, perché io ho sempre la netta sensazione di una rituale che si perpetua da secoli e di cui ho la fortuna di fare parte. Da piccola ho sempre visto la distilleria come un luogo alchemico dove in qualche modo si realizzava qualcosa di magico.
Se dovessi esprimere con una citazione o un autore ciò che il tuo lavoro è per te, chi sceglieresti?
Leonardo Sciascia nel ritirare il premio Nonino nel 1983 disse una cosa fondamentale per noi: “Attenzione, la civiltà industriale presto dimostrerà i propri limiti. L’unica civiltà universale è la civiltà contadina. Il giorno stesso in cui morirà la civiltà contadina morirà l’uomo”.
[Crediti immagine: www.vinoalvino.org]
Nasce “Noi di Sala”
Capita sempre più spesso di passare la serata a cena, in ristoranti dove lo chef è una star, ma l’accoglienza in sala lascia a desiderare. D’altra parte, il nostro Paese ha raggiunto la consapevolezza che la cucina italiana è prima di tutto una risorsa culturale, ma anche economica, solo in tempi recenti, quando la Tv ha cominciato a riempirsi di programmi dedicati. Solo che adesso c’è una generazione di giovani aspiranti executive chef che di cominciare la carriera in questo settore, passando dalla sala prima di approdare ai fuochi, non ne vogliono sapere. Perché per molti chi fa lo chef è un’artista, ma chi sta in sala è solo un cameriere.
E allora, ecco nascere Noidisala, un’associazione che raggruppa i migliori sommelier e maître italiani, creata con l’intento di valorizzare e formare il personale di sala, “perché anche servire l’ospite è un’arte”. La presentazione ufficiale si è tenuta domenica 7 ottobre a Roma, da Settembrini, uno di quei posti dove andare dalla colazione alla cena, passando da un buon caffè e un’ottima pasticceria, fino a un aperitivo con una ricercata selezione di vini.
Matteo Zappile, uno dei giovani sommelier in carriera promotori di questa iniziativa, ci racconta come il progetto «è nato durante lo scorso mese di maggio, in occasione di un evento creato da Giuseppe Palmieri a Modena, al quale partecipammo io, Luca Boccoli e Marco Amato. Si parlò di un’idea, di un bisogno, quello di riformare le nostre figure professionali. Dopo quel giorno, a distanza di 2 settimane il dominio era già registrato. Subito dopo si unirono alla nostra idea anche Marco Reitano e Alessandro Pipero, intervenuti a completare il consiglio direttivo». Matteo ha solo 28 anni e fa il sommelier al ristorante Il Pagliaccio di Roma, che per chiunque sia un buon gourmet è un’imperdibile meta gastronomica, il regno di Anthony Genovese, uno degli chef più creativi e brillanti attualmente in circolazione. In merito ai prossimi eventi e agli obiettivi di Noidisala, Matteo ci dice che: «l’associazione ha tanti eventi in calendario, ma tutti in fase embrionale. Post settimanali e mensili sul sito www.noidisala.com avviseranno non solo i nostri associati, ma anche tutti coloro che vorranno entrare a far parte di Noidisala».
E non è un caso che tra i primi professionisti che hanno scelto di fare la parte dei pionieri dell’associazione, solo per citare qualche nome, emergano figure professionali di alto livello come Davide Merlini, sommelier dell’Hotel de Russie, Marco Amato sommelier dell’Hotel Hassler, e Alessandro Pipero del ristorante Pipero al Rex, insignito del premio “migliore maître dell’anno” durante l’ultima presentazione della guida di Identità Golose. L’iniziativa di Noidisala si prospetta interessante e importante non solo per gli intenditori di vino, degustatori e palati fini, ma anche e soprattutto perché invita a riflettere sulla preparazione e sulla formazione di una categoria di professionisti del settore che in gran parte viene fuori dagli istituti alberghieri italiani. Scuole che, nel panorama della pubblica istruzione italiana, non hanno mai avuto la rilevanza e l’attenzione che le riforme ministeriali hanno invece dedicato ad altri istituti. Eppure sarebbero il primo e fondamentale passo per la formazione culturale e professionale di una classe di professionisti del Made in Italy.
La presentazione da Settembrini si è conclusa com’era d’uopo, con un aperitivo bagnato da bollicine d’autore e vini delle migliori cantine italiane, alla presenza di alcuni dei produttori che hanno partecipato all’iniziativa e sponsorizzato l’evento. Agli ospiti è stato data in omaggio una polo nera con il marchio “Noidisala”, peccato sia sparito il motto che per mesi ha fatto da tamtam all’iniziativa dell’associazione su Facebook: “…alla fine siamo tutti camerieri!”. In vino veritas, verrebbe da dire.
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Intervista allo chef: Francesco Apreda
La cosa che mi è rimasta più impressa è che gli brillano gli occhi mentre parla del suo mestiere, e non solo perché ce li ha blu. Francesco Apreda sembra un elfo con le mani di fata, in testa un vulcano di idee e qualche chilo di impegni di lavoro sparsi per il mondo, che a sentirlo parlare mi è venuto spontaneo chiedergli se avesse il dono dell’ubiquità. Ha appena chiuso la seconda edizione di chef sotto le stelle, manifestazione gastronomica con rituale foto di gruppo sulla scalinata di Trinità dei Monti, partecipato alla prima edizione romana di Taste, ed è in partenza per il festival del tartufo bianco a Mumbai. Se per caso vi capita di vederlo in tv, intento a preparare qualche ricetta su Gambero Rosso Channel, non lasciatevi ingannare, tutte le sere lo troverete da Imàgo, il ristorante dell’Hotel Hassler, che vanta una delle più belle viste su Roma. Ma lui scommette che ad incantarvi non sarà solo il panorama.
Tutto inizia nel modo più tradizionale possibile, ovvero frequentando l’istituto alberghiero.
Sì, quando ero appena un adolescente i miei hanno deciso di trasferirsi da Napoli a Formia. Mio padre decise di trasferire la famiglia lontano dall’ambiente malfamato del centro storico dove abitavamo. Per me all’inizio fu un trauma, perché avevo 13 anni e questo significava abbandonare tutti i miei amici. Io avevo appena frequentato il primo anno di ragioneria, poi una volta a Formia dovetti cambiare indirizzo scolastico, e la scelta dell’alberghiero fu quasi casuale. Ma alla fine, ha dato una svolta alla mia vita.
Cosa è successo dopo?
Ho subito iniziato a lavorare, d’estate facevo le stagioni in giro per l’Italia. Quando avevo 19 anni mi chiama un vecchio compagno di scuola che mi dice che all’Hassler cercavano un commis. Quando ho accettato non sapevo nemmeno cosa fosse l’Hassler.
Cosa ti ha fatto nascere la consapevolezza di questo mestiere?
In verità è stata Londra, perché quando mi ci sono trasferito per motivi di lavoro mi sono accorto che rispetto all’Italia c’era già un’enorme considerazione per questo mestiere. Londra è la capitale gastronomica europea, dove si trova qualsiasi tipo di cucina, lì ho lavorato cinque anni al Le Gavroche, un raffinato ristorante di stampo francese che è stato fondamentale per la mia formazione. Dopo Londra sono stato a Tokio, perché il proprietario dell’Hassler, che durante tutto il mio percorso non mi ha mai perso di vista, mi ha chiesto di gestire la cucina dell’Imperial Hotel.
Cosa ti è rimasto di tutte le tue esperienze all’estero?
Tantissimo. A Tokio lavoravo in un contesto molto importante che aveva all’interno 14 ristoranti di cucine diverse, oltre a quello italiano che gestivo io. Quindi bastava farmi un giro di una mezz’oretta al giorno nelle varie cucine per conoscere ingredienti e sapori nuovi. Mi porto dentro tutta la cultura dei Paesi che ho visitato: due anni e mezzo a Tokio professionalmente ti cambiano molto, perché acquisisci la loro precisione, la loro gerarchia del lavoro e il loro senso dell’ospitalità, tutte cose indispensabili per poter gestire un ristorante di alto livello. In ogni posto comunque scopri qualcosa di diverso, e se vivi in un contesto internazionale come quello in cui lavoro conoscere culture diverse ti aiuta a coccolare meglio il cliente.
In tre parole, cosa si intende per alta cucina?
Non è importante solo il cibo, l’alta cucina è fatta sicuramente anche di raffinatezza, servizio ad alto livello e cura fondamentale dell’immagine.
C’è un piatto nel tuo menu che possiamo definire espressione di tutte queste contaminazioni?
Ultimamente sono molto affezionato al cappellotto di parmigiano in brodo fermo di tonno, doppio malto e sette spezie. Perché partiamo da una base estremamente italiana che è il cappellotto fatto con la pasta fresca, stesa molto finemente e ripiena di parmigiano, contaminata con un brodo freddo di tonno che ho imparato a fare in Giappone, birra e un blend di sette spezie composto da zenzero, peperoncino giapponese, pepe, sesamo e altre spezie scoperte a Tokio.
Un sapore che non dimentichi?
Da piccolo m’intrigava tutto ciò che era fritto. Venendo da Napoli la mia memoria non può che essere legata ai primi profumi della cucina napoletana, come la zeppola fritta, il panzerotto, il “cuoppo” come si chiama a Napoli. Adesso nel mio menu mantengo il risotto mantecato alla puttanesca con una guglia piastrata al limone, uno di quei piatti dove c’è molto delle mie origini.
Come è nata l’idea di “Chef sotto le stelle”?
È nata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia e realizzata in uno dei posti più belli di questo paese, piazza di Spagna. Ho invitato circa 80 chef, ho fatto cucinare tutti gli stellati di Roma, ma ogni chef doveva presentare uno chef emergente, un modo per dare spazio ai più giovani. È una manifestazione che ho pensato di organizzare anche con l’intento di lanciare un messaggio ai turisti che vengono in Italia per il piacere di degustare la nostra cucina. Soprattutto dopo le incresciose vicende che si sono verificate qualche tempo fa, a danno di turisti in vacanza a Roma, raggirati e truffati.
Il costo medio di una cena ad Imàgo?
Il costo medio è di 130 euro per una media di circa sette portate, nel ristorante con la più bella vista su Roma e un servizio eccellente.
Imago nel 2008 ottiene la sua prima stella Michelin.
Quando abbiamo pensato di creare Imago avevo da tempo l’idea di fare un ristorante gourmet di alto livello. Il mio punto di riferimento era Heinz Beck. La stella Michelin è arrivata un anno e mezzo dopo l’apertura ed è stato come un fulmine, non me l’aspettavo proprio. Quando è arrivata la notizia, io ero a Mumbai dentro un mercato, mi hanno telefonato per dirmelo e non ci potevo credere.
I tuoi chef di riferimento?
Sicuramente Gualtiero Marchesi, anche se non ho mai lavorato con lui. E di conseguenza apprezzo molto Cracco, Crippa e Oldani.
Un sogno?
Aprire altri Imàgo nel mondo.
Intervista alla chef: Alessandra Moschettini
C’è chi il mestiere della sua vita lo impara un po’ per caso e un po’ provando e riprovando a fare quello che gli piace, a piccoli passi, spingendo sempre un po’ più in là la voglia di crescere. Alessandra e Alessandro sono una coppia nella vita e nel lavoro, e il mestiere, rispettivamente di chef e ristoratore, se lo sono cuciti addosso strada facendo. Da un piccolo locale sulla spiaggia fino all’Alex, il loro attuale ristorante, aperto in pieno centro a Lecce, il passo non è stato né breve né facile. Ma a vederla Alessandra Moschettini è proprio una di quelle persone che sembrano cresciute a pane e determinazione, che non la manda a dire a nessuno, nemmeno a Gérard Depardieu, che di passaggio a Lecce, una sera andò a cena all’Alex ed ebbe da ridire sul conto da pagare. La sua cucina riflette la sua personalità: sapori decisi e profumi mediterranei, tutto a un prezzo assolutamente onesto.
Cosa ti ha fatto scegliere questo mestiere, quale percorso hai seguito?
Fin da piccola ho provato un’autentica passione per la cucina. La famiglia di mia madre (che ha 82 anni ed esercita ancora la professione di avvocato) è di origini friulane e in qualche modo era estranea al contesto del sud. Ho sempre vissuto con estrema curiosità e interesse questa diversità tra la cucina della nonna paterna e quella della mia famiglia materna. Mia madre, che era bravissima in cucina, ha sempre assecondato i miei tentativi di piccola cuoca, e già da adolescente usavo i miei amici come cavie per i miei esperimenti culinari.
Soltanto negli anni ’90 sono riuscita a trasformare la passione in professione, gestendo un piccolo locale con un’amica, dove si faceva cucina tradizionale leccese, ma con un’interpretazione assolutamente personale. Successivamente, insieme al mio compagno, abbiamo acquistato un locale nella marina di Lecce. Si trattava di un bar, alimentari, pizzeria ed era malfamatissimo! A piccoli passi lo abbiamo “ripulito” e lentamente siamo diventati conosciuti nella zona, tanto che abbiamo deciso di trasferirci qui.
Come definiresti la tua cucina?
Istintiva, con uno sguardo al presente.
Quanta tradizione e quanta innovazione c’è nella cucina dell’Alex?
C’è sicuramente molta tradizione, non quella salentina, bensì un mix di tutte le mie esperienze pregresse. Sono comunque molto attenta alle nuove cotture e cerco di essere sempre aggiornata tramite libri, congressi, visite a grandi stellati.
Siamo quello che mangiamo? Come scegli le tue materie prime e qual è il valore aggiunto del tuo ristorante?
“Siamo quello che mangiamo” perché, come dicevo in precedenza, il nostro gusto dipende dalle nostre passate esperienze. Esempio: mia madre riteneva che dovessi necessariamente mangiare la carne perché faceva bene e mi costringeva letteralmente a ingurgitare cibi che detestavo. Oggi non mangio carne, ed è stato naturale scegliere un percorso alternativo per la mia cucina fatta prevalentemente di pesce e verdure. Per quanto riguarda la scelta delle materie prime, dobbiamo necessariamente dipendere dalla stagionalità e da ciò che offre il mare. È indispensabile che ogni alimento sia di prima scelta e freschissimo. Abbiamo contatti con pescatori locali e pescherecci di Gallipoli.
Quale piatto del tuo menu ti lega di più alle tue radici, alla tua memoria del gusto e perché?
In realtà ogni piatto è in qualche modo legato alle nostre origini, dunque è molto difficile rispondere. Paradossalmente il ricordo predominante del cibo della mia infanzia sono gli gnocchi di patate, che non ho mai avuto in carta. Chissà, magari ho voluto conservarli gelosamente solo nella mia memoria.
Questo è un mestiere creativo di grande soddisfazione ma faticoso. Ti sei mai chiesta: “ma chi me l’ha fatto fare?”
Spessissimo! Quando i clienti aprono la carta e poi ti chiedono lo spaghetto al sugo, quando vogliono la ricetta come quella di casa loro, quando vieni equivocata, quando la serata “gira male”, quando ti torna indietro un piatto e tu sei certa che non c’è errore… e potrei dirne ancora centinaia. Ma se continuo a farlo, vuol dire che tutto sommato ne vale la pena.
Quali sono secondo te le criticità del territorio per chi sceglie un profilo come il tuo in questo mestiere?
Al sud in genere, e a Lecce in particolare, c’è la consuetudine del pasto in famiglia. Per cui è difficile imporre la ristorazione, soprattutto se si discosta molto dalla cucina di casa.
C’è qualche chef che consideri un punto di riferimento nella tua cucina?
Oggi ci sono moltissimi chef che possono essere un grande riferimento, naturalmente ognuno di noi ha un modello. Amo molto Scabin, lo trovo di “rottura”, mi piace Carlo Cracco, che conosco personalmente, ma quello che mi tocca tutti i sensi, con la sua giocosità e allegria, è Moreno Cedroni.
A proposito di Gérard Depardieu e di quel presunto conto salato che gli avresti fatto pagare, cosa mi dici?
La storia di Depardieu è stata e rimane ancora di uno squallore sorprendente e non mi aspettavo avesse tanta eco, evidentemente c’è stato un passaggio mediatico pilotato, volto a far parlare di un attore ormai in declino. Abbiamo a suo tempo chiarito il fatto pubblicando il conto nel dettaglio, e da lì si evince che è stato fatto tutto con limpidezza, seguendo alla lettera il menu. Significativo è stato l’intervento del giornalista Marcello Favale, che sul TG3 ha commentato il fatto citando “I miserabili”, di cui l’attore è stato protagonista.
[crediti foto: Appunti di Gola, Porzioni Cremona]
Cibus – Ceglie Messapica
Come ogni anno, quando arriva l’estate, armata di tutte le buone intenzioni, decido di fare una vita sana, depurata da ogni eccesso alimentare, di fare sport, dimagrire e mettere al bando ogni vizio e tentazione. Stilo un elenco di buoni propositi che puntualmente dura un minuto e mezzo, anche perché, come giustamente disse il buon Oscar Wilde, “il miglior modo di resistere alle tentazioni è cedervi”. E chi osa smentirlo.
Se poi trascorri la maggior parte delle vacanze al sud, tra Calabria, Sicilia e Puglia, resistere alle tentazioni gastronomiche che ti passano sotto gli occhi anche mentre dormi, diventa quasi un crimine di lesa maestà. Al sud deliziare gli ospiti facendogli degustare circa 13 portate alla volta, in nome della tradizione e del sacro principio dell’ospitalità, è un “dovere”. E rifiutare di assaggiare un pasto equivale a dire che non lo gradisci, e questo non si fa.
La sera del mio arrivo in Puglia, i miei amici che si trovavano già sul posto, avevano organizzato una cena da Cibus a Ceglie Messapica. Cibus è un ristorante ricavato da un ex convento del XV secolo; gli interni con le sue arcate bianche a calce ricordano quelli di un’antica masseria, l’ambiente è gradevole, tipico e confortevole. La cucina è a gestione familiare, votata al recupero delle tradizioni culinarie del luogo, con un’attenta ricerca dei più pregiati prodotti tipici, primi fra tutti i formaggi.
Da sempre gli chef executive sono Angela e Filomena, sotto l’occhio vigile della capostipite, Giovanna. Il padrone di casa Angelo Silibello (detto Lillino), ci consiglia di cominciare con degli antipasti tipici, e noi ci lasciamo guidare in questa degustazione che si apre, come è d’obbligo, con la burrata, seguita da stracciatella al tartufo, soufflé di zucchine, ricotta di capra con granella di mandorla, insalata di grano, e gustosissime olive. Come primo scelgo una pasta che si chiama segnapenta al ragù. È una pasta fatta in casa che si usava cucinare durante il periodo pentecostale, condita con mollica di pane fritto, ricotta forte e ragù, molto buona. Per curiosità ho assaggiato anche una pasta di farro con pomodoro e burratina altrettanto gustosa.
I palati buoni tra i commensali non mancavano, e così abbiamo provato anche un piatto di grano con fonduta di caciocavallo e tartufo della bassa Murgia. Il piatto forte arriva con i formaggi: vaccino, pecorino e caprino, canestrato pugliese, erborinato, caciocavallo podolico e formaggio di grotta da degustare insieme al miele di erica e al mosto di ciliegie. Inutile dirvi che a fine cena alzarsi dalla sedia è stata un’impresa. Per finire, impossibile rinunciare a una granita di cocomerelle (o barattieri), una sorta di melone tipico del brindisino, che ha il sapore di un cetriolo, molto rinfrescante.
Tra un dessert e l’altro ho fatto un giro del locale, nella cucina e nella cantina che un tempo veniva utilizzata come “neviera” – una di quelle grotte dove in passato si conservava la neve, che nei luoghi con un clima temperato veniva considerata una rarità – e dove oggi Angelo, tra varie etichette di pregio, conserva anche i fichi maritati messi a macerare nel San Marzano, una delle tante ricette tradizionali che mamma Giovanna continua a preparare ad ogni stagione. E a proposito di fichi, a questo punto sarebbe un peccato non assaggiare il gelato di fichi maritati al vin cotto di mosto d’uva.
Uscendo, magari, tornerete a casa a piedi, ma senza dubbio soddisfatti.
[Crediti immagine: thepuglia.com]