Di Adam Gopnik (Trad. Bruno Amato) – Ugo Guanda Editore
Chiunque sia minimamente appassionato di cibo dovrebbe leggere questo libro. Gopnik scrive per il New Yorker e il suo stile è schiettamente ironico: immaginate di leggere un Anthony Bourdain decisamente più colto.
Dal momento che la tavola è il principio di tutto così come l’alimentazione, l’Autore prova a far chiarezza su alcuni temi, ragionando con chi legge sulla nascita dei ristoranti, su quella dei ricettari, sulle correnti di pensiero riguardo all’alimentazione (dall’approccio onnivoro di Fergus Henderson a quello dei vegetariani, dal localismo allo stagionalismo) e sul ruolo dei critici gastronomici.
Non dovete prendere per oro colato ciò che sostiene Gopnik né essere necessariamente d’accordo con lui: il punto importante è che questo libro vi darà un quadro piuttosto completo sul nostro approccio all’alimentazione e, soprattutto, vi farà riflettere.
Vi rimarrà però il cuore spezzato nel notare lo spazio dedicato alla cucina italiana: Gopnik tratta di cucina americana e, per sua passione personale, di quella francese. Qualche pagina è dedicata alla cucina spagnola contemporanea mentre quelle italiana viene citata poche volte (non troviamo gloria neanche nel capitolo dedicato al vino) e liquidata con un’immagine che sembra presa da un programma di Buddy Valastro più che da quello che è diventata oggi (“Olivi e vino rosso economico, pasta e aglio, pomodori cotti a lungo e formaggio grattugiato…”).
Chissà se ci vede così solo Gopnik o se questa è la percezione che gli Stati Uniti hanno della cucina italiana nel 2013. E chissà se la colpa è di chi non sa capirci o se siamo noi che non siamo in grado di comunicare la nostra evoluzione, ma anche la ricchezza di base della cucina italiana.
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