Quei gran giorni con Chantal
Se leggendo il titolo vi è venuto il dubbio di essere finiti in un blog gossipparo, niente paura: eccovi di fronte al resoconto della visita presso uno dei miei produttori preferiti (ecchissene…) in Côte de Nuits, ovvero Chantal Lescure (il domaine dal 1996 è di proprietà dei figli Aymeric e Thibault e gestito dal vulcanico François Chaveriat, che fa la spola con la sua cave a Digione), avvenuta durante la recente edizione dei Grands Jours de Bourgogne.
A dirla tutta, quella con Chantal presenta qualche affinità con le migliori storie d’amore: conosciuta 5 anni fa in un’enoteca lionese presentati da un oste complice, inseguita come oggetto del desiderio in occasione del primo viaggio in Borgogna con la mia fiamma di allora, culminata in una giornata “cantina aperta” al termine della quale, ai pochi sopravvissuti alla degustazione della intera produzione su più annate (sì, eravamo fra quelli), furono ammannite un paio di jéroboam di Vosne Romanée 1er Cru Les Suchots polverosissime, sortite dalla cantina personale di François, ricercata caparbiamente durante i Grands Jours 2012 assieme a un amico (mi è stato fatto notare che nella mia precedente apparizione ero in miglior compagnia: diavolo di un Guillaume, uno dei 6 collaboratori di François, che ci ha ricevuti e che si ricordava – lui simpatizzante gobbo – della mia fede sampdoriana, della precedente prestazione bevereccia e della mora compagna dell’epoca) e, finalmente, incontrata a casa sua, nelle cantine a Nuits St. Georges, con sempre Guillaume facente funzione di chapèron.
Il domaine vinifica in proprio da una quindicina d’anni: in precedenza, i vini erano conferiti a un négociant (ci dicono il peccato, non il peccatore) al quale vengono ancora affittate un paio di sale delle gigantesche, labirintiche e suggestive cantine (all’ingresso è appesa a mo’ di lampadario una singolare ed enorme mappa in ferro battuto per non smarrirsi), nelle quali prossimamente sarà allestita una sala degustazione con poltrone, climatizzazione e altre diavolerie, per incrementare un po’ l’aspetto enoturistico. L’intera produzione è certificata in biologico, con una pragmatica attenzione alla biodinamica. Guillaume si sofferma non solo sull’aspetto bio, ma soprattutto su quello logico, come continua a ripetere: c’è una logica in vigna, che non conosce l’onta del diserbo; una in vendemmia, manuale, con diraspatura totale e nessuna follatura; una in cantina, dove i legni nuovi vengono usati con moderazione (20-50% , mentre solo il Clos Vougeot, in alcuni millesimi, fa il 100%), la chaptalisation si fa di rado, solfiti minimi e solo per stabilizzare il vino in bottiglia, lieviti indigeni, rare pigiature sofficissime e affinamento sulle fecce da 16 e a 20 mesi, lasciando i vini non filtrati né chiarificati, con un solo soutirage uno o due mesi prima di imbottigliare. E c’è una logica nella (non) divisione del lavoro, aspetto di cui da Chantal Lescure vanno orgogliosi: nessuna specializzazione vigna-cantina, perché tutti partecipano alle due fasi, e coinvolgimento dei collaboratori anche nei rapporti con la clientela. Hanno l’aria di divertirsi, da Chantal, pur lavorando duramente, e di godere appieno della convivialità che si crea attorno al vino, nel farlo, nel berlo, nel raccontarlo. Sono insofferenti verso vecchi e nuovi ricchi del mercato del vino (leggi: cowboys, russi e cinesi), che non cercano il valore della storia che un vino racconta e aiuta a raccontare, ma solo il valor€ (aggiungo io: spintonando maleducatamente nelle postazioni di assaggio ai Grands Jours). Tanto che, ci viene detto più con orgoglio che con rincrescimento, “non lavoriamo con gli Usa”. Adorabili.
Durante la degustazione dell’intera gamma, con tutto il 2010 (si sta ancora affinando in bottiglia), alcuni 2008 e 2009, e tutti i campioni da botte del 2011, Guillaume insiste sulla storia presente in quei vini, e facendo atto di modestia sembra quasi saltare la funzione quantomeno di mediazione di chi il vino lo fa: li racconta descrivendo amorevolmente ogni parcella e mostrandocela sulle cartine, per poi saltare direttamente a quel che i vini restituiscono nel dialogo con i nostri sensi e con l’esperienza che siamo lì a condividere da più di un paio d’ore. E si capisce che è quello che gli interessa.
Vabbè, appunto, ma i vini? Tannini setosi, territorialità quasi didattiche (fantastico assaggiare in sequenza il Volnay VV nella sua più sfacciata opera seduttiva, passare per i due Pommard Villages classicissimi, per arrivare al Pommard 1er Cru Bertins, frutto di una parcella al confine con Volnay, che sembra fondere i precedenti), millesimi lasciati liberi di esprimersi (il 2008 nella sua austerità ed eleganza, il 2009 nella sua poco borgognona calorosità immediata, che tende a sedersi un po’ stanco di tanta esibizione, il 2010 nella sua mineralità e acidità da lunghissimo invecchiamento, se si avrà la pazienza di non tracannarsi vini già ottimi). Un consiglio? Ve ne diamo 2, meno scontati, ché a dire che un buon Clos Vougeot sia buono (e il loro lo è vachement!) son bravi tutti: il Beaune 1er Cru Chouchaeux 2008, goloso più di un uovo di pasqua (e gli aromi di cacao sono più veri che nei Kinder), potente ma mai stancante; il Nuits St. Georges Les Damodes 2010, che in questo momento batte anche il suo fratello maggiore 1er Cru Vaillerots per piacevolezza, sensualità, frutto che lascia spazio ai sentori animali e chiusura lunghissima che resetta la bocca per un nuovo sorso. Se passate da François, Guillaume e co., ve li portate via dalla cantina a 21 e 27 euro rispettivamente.
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