A cercare bene, ascoltando la storia di una persona si possono ritrovare non solo le sue origini e il legame con il proprio territorio, con chi lo abita e l’ha abitato in passato, ma anche le vicende di un Paese intero: le sue forze, le sue memorie, i mali che lo affliggono, i conflitti che lo attraversano.
È questo che viene in mente parlando con Gionata Cognata, un giovane vignaiolo che sette anni fa ha deciso, dopo aver sostenuto tutti gli esami, che il tranquillo mestiere di farmacista poteva restare distante il tempo (indefinito!) di scrivere la tesi e lo spazio (ahi lui, limitato) a disposizione per rimettere in sesto la vite sotto la casa di famiglia a Morego (Genova), in piena Doc Valpolcevera, una doc che ormai sopravvive soltanto grazie a lui e a un altro vinificatore che gli mette a disposizione la cantina, e che raccoglie le uve di un piccolo manipolo di viticoltori che coltivano ostinatamente bianchetta genovese e qualche uva rossa (ciliegiolo, dolcetto, barbera). Quella di Gionata è una forza supportata dalla determinazione e dall’entusiasmo, tali da spingere, pur di poter avere un altro pezzo di vigna, a far acquisire un terreno alla parrocchia locale, districandosi fra vecchi atti mai conclusi, per poi prenderlo in affitto e ripulirlo da una vegetazione inestricabile col solo aiuto di due asini e una cura commovente per ogni singolo albero che vi cresce. Chiedo a Gionata se i vecchi ulivi che sorgono sul terreno rimarranno nella nuova vigna, e lui mi risponde che sì, li lascerà, ma non per fare l’olio, che non è il suo mestiere, ma “per rispetto di chi aveva il campo prima di me”: il legame profondo di questo produttore con il territorio e con la sua memoria si può riassumere in questo scambio di battute.
Per comprendere la passione che smuove questo giovane vignaiolo è sufficiente vederlo entrare in casa trafelato, mentre torna dalla visita a un vecchio contadino che cura con amore certosino e in modo tradizionale tre filari di vigneto (viti sostenute da canne incrociate, da rifare ogni anno), destinate a fare vino per consumo personale. Ne parla come di un gioiellino, e gli brillano gli occhi: si intuisce che vorrebbe che quella vigna si moltiplicasse, che l’intera vallata ritornasse, come prima della guerra, una distesa di filari. Nelle ore in cui ci accoglie – con tutta la famiglia, che lo supporta orgogliosamente seppure con qualche preoccupazione, ma con la discrezione di chi rispetta le scelte autonome e vi riconosce il segno della tenacità – è un fluire di storie, indirizzi di amici nei dintorni che producono formaggi o carni, notizie sulla passata geografia agricola della zona. Ed è bello sentirlo raccontare della sua esperienza da autodidatta, arricchita con curiosità, intelligenza, studio e umiltà, attraverso letture, visite a vignaioli in Piemonte, esperienza di cantina presso l’altro vinificatore della zona, ascolto costante di chi ha qualcosa da raccontargli su un pezzo di campo.
A questo proposito, è importante il ricordo della presenza in valle, prima delle guerre mondiali, del nebbiolo, che Gionata vorrebbe piantare per riportare un pezzo di tradizione a casa. Ed è qui che interviene uno dei mali di questo Paese, rappresentato da una burocrazia ottusa e incompetente come nei racconti di Kafka, che permette la coltivazione di vitigni di recente comparsa sul territorio – come il sangiovese – ma non quella di uno le cui tracce sono state ricostruite con l’ausilio dell’università di Torino e la mappatura genetica di un vigneto in quel di Ronco Scrivia, poco distante dalla Valpolcevera. Oppure, che impedisce il posizionamento di un’insegna – in un territorio peraltro deturpato a valle da obbrobri industriali, edilizi e commerciali – che favorirebbe la visibilità della piccola azienda, o che pretende prima dell’imbottigliamento la dichiarazione del numero esatto di bottiglie, su una quantità risibile come quella delle circa 1600 prodotte da Gionata, che tra l’altro le numera in etichetta.
Infine, partendo da un piccolo pezzo di vigneto e dai racconti davanti a un bicchiere si capisce quanto ancora questo Paese – e il territorio genovese in particolare – sia segnato dai privilegi di una vecchia aristocrazia improduttiva, che in città lascia sfitti e vuoti gli immobili, mentre in questo pezzo di campagna a ridosso della periferia nega persino l’affitto di un fazzoletto di terreno, che verrebbe bonificato, tolto dall’abbandono e dai rovi disordinati, solo perché spera in qualche speculazione legata alla sua edificabilità.
Quanto al vino, come accade sovente, racconta chi lo fa: è una Bianchetta dal mirabile equilibrio e da una piacevolezza fresca e per nulla banale, con rotondità inedite, sia per la tipologia che per il suo essere vinificata in solo acciaio, generate da un lavoro in vigna che sfrutta con dedizione la fantastica esposizione dei filari per portare gli acini ad avere un’alta componente zuccherina; un vino con interventi ridotti al minimo, zero concimazione, solforosa bassissima, frutto dell’attenzione che un quasi farmacista può aver sviluppato nei confronti delle insidie della chimica, nonché figlio del rispetto profondo del territorio che innerva le parole di chi quel vino lo fa. Un vino che si presta a una lunga chiacchierata domenicale attorno a un salame e a un pecorino, per riscoprire le memorie, i sapori e gli aromi di una terra a un passo dal mare, abitata ancora da persone che vogliono nobilitarla con le loro azioni, più che con le parole.
AZIENDA AGRICOLA GIONATA COGNATA
VIA INFERIORE PORCILE 6-A, 16163 Genova (GE)
Tel. 010/7261155
[Crediti immagine: intravino.com]
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